Kimia S.p.A.

Intervista all'Ing. Giovanni Cangi

Ing. Giovanni Cangi

«Il sisma in Umbria-Marche del 1997 ha rappresentato una prova di collaudo generale delle tecniche di riparazione e rinforzo strutturale, ma il "Modello Umbria" non è un caso unico». Intervista all'Ing. Giovanni Cangi

Oggi ospitiamo Giovanni Cangi, ingegnere civile e libero professionista di Città di Castello in provincia di Perugia. Specializzato nel recupero e consolidamento strutturale di edifici storici, per anni si è occupato della ricostruzione post sisma in Umbria e nelle Marche. Giovanni è inoltre autore di manuali tecnici e pubblicazioni su riviste scientifiche, anche in ambito archeologico, e svolge attività di docenza in master universitari e corsi di aggiornamento. Con lui abbiamo parlato in particolare del terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche per cercare di capire se, quanto fatto allora, possa costituire un modello per la ricostruzione nelle aree colpite dal terremoto nel Centro Italia.

Benvenuto Giovanni, per cominciare ci racconti qualcosa di lei.

«Ho iniziato a lavorare nel 1985 e mi sono dedicato fin dai primi tempi al recupero dell’edilizia storica. Con il tempo mi sono concentrato sulle problematiche del consolidamento strutturale degli edifici in muratura scoprendo che c'era molto da imparare e da rileggere in modo critico, soprattutto alla luce dello sviluppo tecnologico avvenuto negli ultimi decenni e in relazione ai problemi posti dalla vulnerabilità sismica dell'edilizia storica.

L’occasione per caratterizzare definitivamente la mia attività professionale nel settore del recupero si è presentata qualche anno dopo, quando sono entrato a far parte del Laboratorio Urbanistico per il Centro Storico di Città di Castello. Un progetto lungimirante che mi ha portato a occuparmi delle problematiche strutturali anche al di fuori del contesto locale. E' da lì che sono nate poi le mie collaborazioni universitarie e con l’ITABC - Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR».

Ing. Giovanni Cangi

Una collaborazione, quella con il CNR, che va avanti da tempo, giusto?

«Sì, i miei rapporti con l'ITABC sono cominciati nel 1990 e continuano tuttora. Fra le diverse attività svolte con loro mi preme ricordare il restauro e consolidamento del Bedestan, ex-chiesa di San Nicola degli Inglesi a Nicosia, nella Repubblica Turco Cipriota. Il progetto, elaborato con gli architetti Luciano Cessari (coordinatore) ed Elena Gigliarelli è risultato vincitore dell'Europa Nostra Awards 2009, un premio che l'Unione Europea assegna ai migliori progetti sul patrimonio culturale. E' un riconoscimento importante, passato nel silenzio, ma ricevuto con grande soddisfazione.

Oggi collaboro con l’ITABC in veste di Associato di Ricerca nell’ambito della missione di cooperazione scientifica con l’Università di Pechino, avente per oggetto lo studio dell’edilizia storica e delle tecniche costruttive tradizionali utilizzate in alcuni villaggi della provincia di Pechino e del Fujian e per altri progetti in alcuni siti archeologici della Giordania».

E con le università?

«A livello universitario ho collaborato con la Facoltà di Architettura di RomaTre, in particolare nell’ambito dei corsi di laurea e del Master sul Restauro Architettonico diretti da Paolo Marconi e negli studi sulla meccanica delle murature condotti da Antonino Giuffrè. Lavorare con due maestri come loro è stato un vero privilegio anche per il rapporto umano che si è potuto instaurare.

I miei rapporti in ambito accademico si sono poi estesi ad altri ambienti universitari per master di I e II livello alla Sapienza, a Tor Vergata e poi ancora a Cagliari, Bologna, Ferrara e Perugia. Attualmente ho un incarico come professore a contratto presso la Scuola di Ingegneria e Architettura di Cesena - Università degli Studi di Bologna».

Progetti in Giordania e Cipro

Sono trascorsi 20 anni dal sisma Umbria-Marche. Quali ricordi ha, da umbro e da tecnico, del terremoto del 1997?

«Ricordo perfettamente le forti scosse che durante la notte del 26 settembre 1997 e la mattina successiva colpirono il territorio di Umbria e Marche. Fortunatamente in Alta Valle del Tevere, dove risiedo, fu più la paura che il danno arrecato alle costruzioni, anche se gli effetti negativi si riscontrarono realmente.

Purtroppo il dibattito che si aprì sul problema della prevenzione sismica immediatamente dopo l’evento calamitoso è lo stesso che si ripropone oggi a distanza di venti anni, soprattutto per quanto riguarda la necessità di fare prevenzione, un principio che convince tutti, ma difficile da mettere in pratica».

Perché?

«Negli ultimi tempi, anche a seguito degli eventi sismici che si sono ripetuti nel Centro Italia, lo Stato sta facendo la sua parte, attraverso incentivi che venti anni fa non erano neppure immaginabili, ma resta aperta la questione della sensibilità verso il problema, che svanisce rapidamente lasciando spazio ad altri pensieri e preoccupazioni.

Ricordo bene il dibattito che si aprì, proprio in quell’occasione, sul piano tecnico in merito all’efficacia delle normative vigenti. Va ricordato che i territori colpiti dal sisma nel 1997 furono gli stessi interessati da un altro evento calamitoso nel 1979, a seguito del quale si misero in atto i provvedimenti dettati dalle norme sismiche entrate in vigore negli anni ’70 e dopo il terremoto in Friuli del 1976.

Il sisma in Umbria e Marche del 1997 ha costituito pertanto una specie di prova di collaudo generale delle tecniche di riparazione e rinforzo messe in pratica nei venti anni precedenti, creando le premesse per la modifica delle Norme Tecniche sulle Costruzioni maturata nel 2008 con le nuove NTC aggiornate sulla base di questa tragica esperienza».

Cosa ne pensa della ricostruzione post-sisma del 1997?

«Nel 1997 si è preso coscienza dei limiti delle norme tecniche vigenti, che imponevano un modello d’intervento per il consolidamento delle strutture in muratura convincente sul piano teorico, ma che all’atto pratico si è rivelato inadeguato. Si riscontrarono comportamenti anomali, con danni alle costruzioni in muratura non previsti dai modelli di analisi e mai rilevati in precedenza, da mettere in stretta relazione con le tipologie d’intervento stabilite dalle norme.

Naturalmente per almeno dieci anni la ricostruzione è avvenuta secondo gli stessi criteri adottati in precedenza, ma sicuramente con una sensibilità e un'attenzione diverse, sia da parte dei professionisti che delle le istituzioni e degli organi di controllo.

A tal proposito è opportuno sottolineare anche il ruolo che hanno avuto le Università, in particolare la Facoltà di Ingegneria di Perugia, che ha orientato docenti, ricercatori e studenti all’approfondimento di questo tema molto complesso. Va riconosciuto che le NTC 2008 sono in qualche modo figlie di questa esperienza».

Il “modello Umbria” può essere un esempio per la ricostruzione post sisma nel Centro Italia?

«Ritengo che il “modello Umbria” costituisca nel complesso un esempio positivo, in particolare perché ha permesso di operare su scala territoriale, con una visione della ricostruzione concepita come rigenerazione del territorio che, oltre all’aspetto edilizio, ha investito l’ambito sociale ed economico.

In Umbria si è intervenuti secondo il criterio del “com’era, dov’era”, uno slogan che ha espresso un auspicio più che un reale modo di operare, sapendo che il terremoto lascia sempre segni indelebili e dopo un evento sismico nulla è mai come prima. La storia ci insegna che è stato così anche in passato, quando i borghi colpiti venivano ricostruiti utilizzando materiali e tecniche più adatte al momento e ritenute più sicure sulla scorta dell’esperienza vissuta.

Il principio è lo stesso che si segue tuttora, con l’impiego di tecniche e materiali che permettono di ricostruire meglio di com’era senza snaturare i caratteri costruttivi tradizionali che costituiscono un valore culturale da preservare. Tuttavia l’Umbria non è un caso unico».

Casi di ribaltamento timpano in chiese ad Amatrice

Quali sono gli altri casi?

«Merita di sicuro una menzione l’esperienza del Friuli, colpito dal terremoto nel 1976, dove il modello adottato per la ricostruzione ha fatto scuola per la serietà con cui è stata condotta l’operazione, sebbene con norme tecniche ormai superate. Pertanto non è un caso che un centro storico come Venzone, distrutto dal terremoto e risorto dalle proprie macerie sull’impianto primitivo, oggi rientri a pieno titolo fra i “borghi più belli d’Italia”. Lo si deve sicuramente a dei bravi amministratori, oltre che a validi professionisti, ma anche alla laboriosa gente friulana che è stata parte attiva del processo di ricostruzione.

Ogni evento sismico ha una sua storia, poiché colpisce aree diverse, a volte le stesse, come si è verificato proprio in Umbria, ma in tempi diversi, quando il contesto socio-ambientale si è modificato, per cui non è così semplice calare un modello da una realtà all’altra. In Italia dovrebbe comunque valere il principio di riscostruire in modo che il nuovo possa invecchiare bene e acquistare valore nel tempo, evitando il rischio di una ricostruzione frettolosa e improvvisata con il rischio di trovarsi daccapo dopo pochi anni.

Da ogni esperienza si può trarre insegnamento, ma nel Centro Italia si dovrà pensare a qualcosa di ancora diverso in relazione alle specifiche caratteristiche del territorio colpito».

Pensa che le soluzioni innovative possano sostituire le tecniche di intervento tradizionali?

«Credo che sia sbagliata l’idea di voler sostituire tecniche che costituiscono esse stesse un valore da preservare e da valorizzare. Quindi le soluzioni innovative non vanno viste nell’ottica della sostituzione di quelle tradizionali, quanto del loro potenziamento, per renderle più sicure ed efficaci».

Può spiegarci meglio?

«Porto un esempio per maggiore chiarezza: mi è capitato spesso di rinforzare archi in muratura di grande luce adottando una tecnica tradizionale che consiste nella realizzazione di una cerchiatura in muratura ottenuta con un sottarco laterizio posto a contrasto. L’esperienza dimostra che si tratta di un intervento alquanto efficace, capace di assicurare prestazioni straordinarie grazie all’inserimento di una fibra in composito nell’interfaccia fra il nuovo arco e quello esistente.

Con l’aggiunta di questa ”armatura” si va a potenziare il meccanismo resistente senza creare alcun impatto estetico e nel rispetto del principio di reversibilità, che costituisce un altro aspetto da tenere ben presente nell’uso di questi materiali altamente tecnologici. Il Prezzario unico del Cratere del centro Italia già contiene indicazioni a riguardo.

Questo modo di operare presuppone comunque la conoscenza delle tecniche costruttive tradizionali, che sembrano semplici, ma non lo sono affatto, per poter utilizzare i materiali innovativi in modo da sfruttarne al meglio le qualità meccaniche».

In un progetto di recupero come si conciliano la necessità di tutela del passato con le esigenze attuali?

«E’ possibile, se ci si abitua a operare tenendo sempre presenti i due obiettivi e recuperando sia gli insegnamenti del passato, sia alcune tecniche considerate superate, ma che invece hanno contribuito a preservare molti centri storici dalla distruzione.

Andrebbe rivisto pure il concetto di estetica. Per esempio, gli speroni che venivano comunemente utilizzati in passato al punto da costituire un carattere peculiare dell’edilizia storica, oggi vengono esclusi per l’impatto che creano, quando invece la visibilità di un intervento, se ben progettato, non deve essere vista come un aspetto negativo. Peraltro le NTC 2008 offrono questa possibilità e invitano a non escludere a priori l’uso di simili tecniche negli interventi di consolidamento strutturale.

Allo stesso modo ci si può chiedere: perché nascondere una chiave di ancoraggio o una piastra di trattenuta di un tirante? Forse semplicemente perché richiede uno sforzo progettuale maggiore e comporta un incremento dei costi per giungere a una soluzione adeguata anche sul piano estetico.

Per rispondere alle esigenze attuali nel rispetto della tradizione bisogna solo adottare un approccio diverso, cercando di operare con la logica del mastro muratore di un tempo, supportata dalla scienza delle costruzioni e dalla conoscenza dei nuovi materiali, rivedendo però anche il concetto di modernità, più sensibile all’eredità storica che è parte del nostro patrimonio culturale».

L'Ing. Giovanni Cangi

Per l'impiego dei nuovi materiali quali sono le tendenze?

«La tendenza è senza dubbio quella di un uso appropriato dei materiali innovativi e delle moderne tecnologie. Il mercato offre molte proposte, ma ritengo che i margini maggiori possano derivare dal perfezionamento delle pratiche legate all’impiego corretto e ottimale dei materiali, più che dal potenziamento delle qualità meccaniche degli stessi, anche se la rapidità con cui evolve la tecnologia invita a usare molta cautela nel fare previsioni».

Si sbilanci un po'.

«Nel recupero strutturale dell’edilizia storica, l'uso dei compositi ha enormi potenzialità, ancora non supportate da una sufficiente esperienza cantieristica. Servirà pure del tempo per avere riscontri e poterne valutare la reale efficacia. Tuttavia la stratificazione storica leggibile in tanti edifici, dimostra che già in passato si sono sperimentate tecniche innovative con l’impiego di nuovi materiali, soprattutto in seguito ad eventi calamitosi. Appare logico di conseguenza seguire la stessa strada che porta ad acquisire esperienza e ad incrementare il livello di sicurezza oltre alla fiducia verso le innovazioni.

Per il futuro comunque non escludo una rivalutazione delle tecniche tradizionali, anche quelle più elementari, ma con l’introduzione mirata ed equilibrata di nuovi materiali, fra i quali sicuramente i compositi, che possono assicurare elevate prestazioni meccaniche».

Per concludere, torniamo a lei. Lo scorso anno ho notato che il suo intervento al seminario Kimia a Perugia venne particolarmente apprezzato dal pubblico. Qual è il suo segreto?

«Sì, ho notato pure io l’attenzione dei colleghi, che naturalmente mi ha fatto piacere. Una sensazione percepita anche in altre occasioni che costituisce un forte stimolo per continuare su questa linea, cercando di proporre temi complessi in forma elementare. Credo sia questo il modo migliore per catturare l’attenzione della platea e certamente non costituisce un segreto».

Credo ci sia molto di più.

«Quella che propongo è una chiave di lettura semplice e adatta ad un pubblico diversificato. Naturalmente i professionisti del settore sanno trarre le informazioni che gli sono più utili e congeniali per ricondurle alla propria esperienza, con una visione critica che appartiene solo agli addetti ai lavori.

Fra gli argomenti che tratto, dedico molta attenzione alla conoscenza delle tecniche costruttive, all’analisi dei dissesti e alla ricerca delle cause, spingendomi fino alla proposta di interventi: insomma, cerco di dimostrare che il mio non è un approccio puramente teorico, ma dai concreti risvolti pratici, frutto dell’esperienza professionale e della pratica di cantiere.

Ritengo inoltre che oggi si dia più attenzione alle immagini che ai discorsi troppo articolati. Mi preoccupo talmente delle presentazioni che arrivo a dedicare anche molto tempo alla preparazione di una singola animazione destinata a scorrere in pochi secondi. In questo modo però so che avrò un effetto assicurato che in genere non lascia dubbi di interpretazione. Potrò risultare di conseguenza più o meno convincente, ma questo è un altro aspetto. Non mi preoccupo di ricercare consenso, quanto di essere chiaro, perché ho la certezza che chi segue e riesce a comprendere il messaggio può anche non essere d’accordo, ma ne esce comunque soddisfatto».

Evoluzione geometrica delle volte

Per concludere, qual è il progetto che le è rimasto più a cuore?

«Nel complesso l’attività svolta in oltre trent'anni di professione mi ha permesso di spaziare in diversi ambiti, dagli interventi sull’edilizia ordinaria a quelli rivolti all’edilizia monumentale.

Fra i lavori che più mi piace ricordare ci sono i progetti strutturali per il recupero del Castello di Piombino, del convento di Sant’Ambrogio della Massima a Roma e delle volte di Palazzo Buonaccorsi a Macerata, ma anche l’opera di inserimento di un elevatore all’ingresso del Foro Romano presso la Basilica Emilia. E poi, ancora, il restauro e consolidamento del complesso abbaziale di San Pietro di Modena, della Basilica di San Vitale a Carpineti, del Castello di Montegiove e delle volte di Palazzo Senatorio al Campidoglio, oltre agli interventi presso la Domus Tiberiana in corso di realizzazione.

Più di tutti però, mi restano nel cuore gli interventi minori, eseguiti su molte chiese storiche, in piccoli conventi, nelle cinte murarie e in case private, condotti sempre con la regola della massima economia e quindi con uno sforzo progettuale proteso verso l’estrema ottimizzazione delle risorse.

Federico Picuti, Responsabile della Comunicazione

Federico Picuti, Responsabile della comunicazione

Laureato in Comunicazione Multimediale a Perugia, lettore avido, sportivo quanto basta. In Kimia trasformo il nostro lavoro in contenuti per il web. Il mio profilo Linkedin

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